The Mongols in the Islamic Lands

Ultimo aggiornamento: 08 luglio 2021

Amitai-Preiss R.

The Mongols in the Islamic Lands

Studies in the History of the Ilkhanate

Ashgate Aldershot 2007

Scheda a cura di: Pubblici L.

pp. XII-372


Una certa tradizione storiografica ha a lungo presentato l’invasione mongola dell’Asia centrale e della regione mediorientale come un fenomeno devastante le cui conseguenze sono state quasi esclusivamente negative. Non v’è dubbio che l’impatto delle operazioni militari che portarono alla conquista di gran parte del continente sia stato durissimo e ne abbia spinto al ribasso gran parte dei fattori di sviluppo: demografico, economico-commerciale e politico.
Tuttavia in tempi più recenti si sta cercando di storicizzare fenomeni che hanno più volte ottenuto un’attenzione sui generis, influenzata da passaggi particolarmente impressionanti delle fonti narrative che, giova sempre ricordarlo, furono scritte quasi esclusivamente da chi subì la dominazione mongola. Storicizzare l’esperienza mongola significa soprattutto analizzare, col rigoroso ricorso alle fonti tutte, non solo il prima, ma anche il durante e il dopo la conquista. Può apparire una banalità, ma per chi ha che fare professionalmente con la storia dei Mongoli questa operazione presenta non poche complicazioni. E i problemi sono molteplici; fra essi il più difficile da superare restano la complessa diversità, la scarsità e la rarefazione delle fonti. Tuttavia se questo è vero per gran parte delle terre conquistate si può dire che più copiosa è la documentazione per l’Ilqanato, ovvero per quel regnum  (dato che nel caso persiano-iranico parlare di qanato non è del tutto corretto) formatosi quasi casualmente e comunque non in seguito a una conquista programmata, ma che ciò nonostante vide la maggiore integrazione fra l’aristocrazia tradizionale locale e il nuovo ceto dirigente dominante.
La conquista della Persia iranica (il termine Iran entrò nell’uso comune proprio dopo la conquista mongola) fu un grande successo di un esponente dei gengiskhanidi, Hülegü, il quale di sua iniziativa riuscì a spostare le operazioni militari verso sud e a portare a termine una delle più complesse operazioni belliche cui i Mongoli attesero fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del XIII secolo. Ottenne solo in seguito la benedizione del gran Khan, che era allora Möngke. Durante gli oltre ottant’anni della sua esistenza l’Ilqanato rappresentò un modello di governo che potremmo definire illuminato, anche se visse fasi alterne e alterne fortune, sia al suo interno sia nella politica estera. L’area fu unificata dopo secoli di guerre e di frammentazione che assunse caratteri talvolta strutturali; anche la tendenza demografica subì un brusco mutamento al rialzo e dopo quasi due secoli di flessione costante prese a crescere di nuovo sin dalla fine del Duecento. I Mongoli riorganizzarono l’amministrazione finanziaria costituendo un censimento estensivo e sistematico di cui abbiamo tracce importanti; ricostituirono l’esercito dando ad esso una fisionomia decimale more nomadum; rinacquero gli studi tecnologici, la letteratura visse un momento di straordinario splendore al punto che qualche studioso in tempi recenti si è spinto, forse in un impeto di entusiasmo a nostro avviso eccessivo, fino a parlare di Rinascimento persiano. Quel che è certo è che se si trascura l’esperienza mongola in Medio Oriente si rischia di non comprendere a fondo il mondo islamico almeno dalla seconda metà del XIII secolo in avanti.
Per tutte le ragioni e per molte altre il libro di Reuven Amitai va salutato con piacere. L’Autore da tempo frequenta questo ambito di studi ed è soprattutto al rigore del suo lavoro scientifico che si devono molti dei progressi degli ultimi anni sulla storia dell’Il-Khanato e dei suoi rapporti col potere circostante. Nella fattispecie si tratta di una raccolta di studi personali apparsi fra il 1987 e il 2002. Il volume è suddiviso in tre parti: Institutions and Historiography; The Conversion of the Mongols to Islam; The War Against the Mamluks.
Nella prima parte l’autore affronta quattro aspetti di straordinaria rilevanza: in primo luogo tratta dell’uso del titolo di ilkhan  da parte dei Mongoli. Tradizionalmente si ritiene che Hülegü abbia fatto uso del titolo per la prima volta nel 1256 poiché è stata trovata un’iscrizione numismatica che dimostrerebbe ciò. Da alcune fonti armene e islamiche si evince però che il titolo fosse in uso già l’anno prima. Dopo aver indagato  queste evidenze l’autore afferma che solo dalla fine degli anni Cinquanta, e in particolare dal 1259-60, si può parlare con certezza di un uso sistematico e ufficiale del titolo, il quale divenne segno distintivo e esclusivo della dinastia di Hülegü.
L’Autore insiste sulle differenze fra le migrazioni dei Selgiuchidi e l’invasione mongola. I Selgiuchidi entrarono in Iran come musulmani mentre i Mongoli in realtà sapevano ben poco dell’Islam quando occuparono le terre persiane. I Selgiuchidi non sostituirono le precedenti istituzioni mentre i Mongoli, almeno fino alla conversione degli anni Novanta, crearono una situazione di caos sicuramente maggiore rispetto ai predecessori mantenendo molte delle loro tradizionali forme amministrative. Quando gli Il-khani si convertirono all’Islam le cose cominciarono effettivamente a cambiare e, sebbene alcune delle tradizionali forme di governo, caratterizzate da strutture tipiche del nomadismo, ressero, anche per la concezione imperiale che i Mongoli avevano, in generale si può dire che per l’Il-khanato le cose migliorarono e l’aristocrazia persiana di religione musulmana ne beneficiò. Detto questo resta un problema che ancora oggi sta impegnando gli studiosi: fino a che punto cioè le forme amministrative di origine persiana resistettero alla sovrapposizione mongola e quanto invece la nuova classe dirigente impose i suoi metodi di governo. È una questione difficile da risolvere definitivamente; certo si è che per quanto riguarda i modi del prelievo fiscale, sembra che i Mongoli preferissero affidarsi ai loro metodi. Il cosiddetto sistema dell’iqta, analizzato nel secondo capitolo, ne è un esempio. Di origini antiche questo meccanismo conferiva agli alti ufficiali dell’esercito il diritto di riscuotere direttamente le tasse che altrimenti spettavano all’amministrazione centrale; in tal modo i militari potevano disporre di moneta fresca e subito senza dover attendere il percorso distributivo della burocrazia califfale. Naturalmente non tutte le imposizioni erano decentralizzate e anche quelle che lo erano, come il kharaj (o tassa sul raccolto), dovevano essere versate in parte al tesoro; il sistema non era ereditario così che la proprietà delle terre rimaneva allo Stato che la cedeva in una sorta di usufrutto temporaneo e senza scadenze. Come si apprende da molti storici arabi e persiani del IX e X secolo il sistema dell’iqta ebbe in buona sostanza risultati opposti a quelli per cui era stato creat. Si era cercato infatti di promuovere un ciclo di sviluppo virtuoso garantendo entrate sicure e rapide agli alti ufficiali militari e doveri fiscali di minore entità ai contadini e agli abitanti dei villaggi; di fatto il sistema degenerò ben presto dando luogo a vessazioni, abusi e distorsioni di ogni genere tanto che nella seconda metà del X secolo molti militari avevano già trovato il sistema di non pagare il dovuto al tesoro e talvolta di rendere ereditari i loro diritti. Quando la dinastia abbaside entrò in crisi, a metà del X secolo, i nuovi dominatori della dinastia buyide eliminarono il cosiddetto ushr cioè il dovere dei militari di pagare una parte delle tasse raccolte al tesoro. Tale sistema venne adottato anche dai Selgiuchidi nella seconda metà dell’XI secolo. Nella prima parte della dominazione mongola in Iran, fino alla conversione di Ghazan, sembra che il sistema dell’iqta nella sua forma ultima, quella adottata anche dai Selgiuchidi, sia stato abbandonato. Ghazan reintrodusse il sistema dell’iqta ma al modo mongolo; si trattava cioè di suddividere i proventi non solo fra gli alti ufficiali bensì fra tutti i soldati e il diritto divenne ereditario se non quando per il singolo almeno per la famiglia.
Dovunque dominarono, anche se spesso per periodi brevi, i Mongoli furono piuttosto riluttanti nell’adottare sistemi e istituzioni locali e mostrarono sempre una certa resistenza nell’abbandonare i loro usi tradizionali. Il caso illustrato da Amitai nel volume è, da questo punto di vista, emblematico e illuminante l’analisi dell’Autore.
Il terzo capitolo e il quarto capitolo sono due articoli di taglio storiografico in cui vengono illustrate le figure di due storici che, per motivi diversi, hanno lasciato memoria scritta dei Mongoli e del loro governo in Medio Oriente; da una parte una delle fonti più importanti per tutti gli specialisti di storia mongola in quanto assai dettagliata e compilata da un alto funzionario che ebbe diretta conoscenza di gran parte di ciò che descrive: Rashid ad-Din, dall’altra al-Nuwayri anch’egli pubblico amministratore nell’Egitto mamelucco e in Siria. Se Rashid ad-Din ebbe a che fare con la classe dirigente mongola a lungo in quanto funzionario fiscale dell’Ilkhanato, al-Nuwayri ebbe dei Mongoli una conoscenza indiretta, come vicini; Amitai dimostra che proprio quest’ultimo autore, morto nel 1333, debba essere rivalutato come fonte storica poiché alcuni passi della sua enciclopedia sono inediti e di essi non si è in grado di individuare la fonte.
Della conversione da parte dell’Ilkhanato all’Islam abbiamo detto; prima della presa di posizione ufficiale da parte di Ghazan vi fu un altro Ilkhan, Tegüder (1282-4), musulmano. Il suo regno fu assai breve ma molto importante e a esso è dedicato il capitolo sesto.
La seconda parte del libro affronta alcuni temi di storia politica, con particolare attenzione ai rapporti fra Il-Khanato e Egitto mamelucco.
Il volume di Amitai ripercorre con lucidità e acume i decenni di vita di questo organismo politico affrontandone gli aspetti meno noti e quelli già oggetto di dispute scientifiche. L’analisi della documentazione e una non comune padronanza linguistica permettono all’Autore di offrire alla comunità degli studiosi un volume miscellaneo, scritto in anni di lavoro, ma tutto sommato organico e assai attuale. D’altra parte i meriti di questo studioso sono ormai molti e l’oggetto della nostra recensione non fa che confermarli tutti.